Chi è Lino Frongia, il pittore che si sarebbe autoaccusato di aver modificato la Cattura di Cristo di Rutilio Manetti, inserendo nel dipinto una fiammella? Il sospetto degli inquirenti è che in questo modo Vittorio Sgarbi abbia voluto occultare la provenienza dell’opera in suo possesso, che sarebbe stata sottratta al Castello di Buriasco in Piemonte.
Il nome di Frongia, che ha trascorsi di pittore accostabile al realismo magico è legato al più grande scandalo avvenuto nel mondo della compravendita di dipinti del segmento “Old Masters” negli ultimi decenni. Una vicenda che risale all’autunno del 2016, quando cominciò ad emergere la trama di una grande truffa internazionale, passata a lungo in Italia sostanzialmente sotto silenzio, se si eccettua un articolo che il sottoscritto pubblicò su di un giornale non più esistente, Pagina 99.
Un Frans Hals da dieci milioni di dollari
Nel novembre di quell’annpo, Sotheby’s si vide costretta a rifondere 10 milioni di dollari a un collezionista privato, che aveva acquistato un dipinto ritenuto di Frans Hals, maestro olandese del seicento. Un ritratto di uomo che non aveva lasciato alcuna traccia di sé nelle fonti storiche, ma che sembrava avere egualmente le carte in regola per essere considerata un’opera autografa, in ragione dell’altissimo livello qualitativo. Il quadro era comparso sul mercato nel 2008. Era stato portato a periziare da Giuliano Ruffini, un francese di origine italiana, che affermava di averlo acquistato da venditore spagnolo. Blaise Ducos, capo conservatore e responsabile per la pittura fiamminga e olandese del Louvre, lo esaminò assieme ai propri collaboratori, dal momento che per essere esportata l’opera doveva prima essere ratificata oltre che dal Ministero della Cultura anche dal grande museo parigino. Dopo una ricognizione diagnostica con raggi x, infrarossi e ultravioletti, si decise di dichiarare il ritratto tesoro nazionale, impedendone così l’espatrio. Venne avanzata contestualmente una richiesta d’acquisto per una cifra pari a 5 milioni di dollari. Quentin Buvelot, curatore capo del Maurithshuis di Den Haag, ricordava: “è eseguito con tanta raffinatezza e capacità tecnica che la gran parte dei connoisseurs ha creduto che il dipinto fosse del maestro stesso”.
Come spesso accade, il Louvre non ha in realtà finalizzato l’acquisto, non disponendo in quel momento delle risorse necessarie. Il presunto Hals è dunque tornato sul mercato, ed è stato acquistato da un mercante londinese, Mark Weiss, per tre milioni di dollari”. Claus Grimm, tra i massimi esperti del maestro olandese, manifestando qualche dubbio in merito all’autografia, preferì riferire il ritratto a Peter, figlio di Frans. “Mi sembrava che l’autore fosse un imitatore, ma non avevo sufficienti elementi per avanzare una proposta alternativa”. Nel 2011 l’opera venne acquistata da Richard Hedreen, collezionista di Seattle, con l’intermediazione di Sotheby’s, per la cifra sudddetta.
Il gruppo di opere cedute ai grandi musei
Nel marzo del 2016 una tavola che era esposta a una mostra presso il Caumont Centre d’Art di Aix-en-Provence venne posta sotto sequestro dalla gendarmerie. Proveniva dalle collezioni del Principe di Liechtenstein. Si trattava di una Venere con il velo, attribuita a Lucas Cranach il Vecchio, con datazione stimata al 1530. Era stata acquistata nel 2012 dalla Colnaghi Gallery di Londra. Ma le autorità di polizia transalpine la vollero avviare a un confronto diretto con le Tre Grazie, capolavoro del maestro tedesco conservato al Louvre. Gli esperti compresero che si trattava di un falso. Ricostruirono allora i passaggi di proprietà del dipinto, e si accorsero che era stato Ruffini a cederla a Colnaghi. Vincent Nose, giornalista francese (che nel 2021 scrisse anche un libro dedicato alla vicenda, L’affaire Ruffini) ricostruì un nucleo di dipinti che il collezionista avrebbe venduto a diversi acquirenti. Ne facevano parte un Davide con la testa di Golia di Orazio Gentileschi, un San Gerolamo riconducibile stilisticamente alla maniera del Parmigianino, un Ritratto del cardinal Borgia, che aveva le sembianti di un Velazquez, e l’Hals.
L’Orion Analytical smaschera il falso
Dopo il sequestro di Aix-en-Provence, Sotheby’s pensò di “richiamare” il dipinto venduto al collezionista di Seattle, e, a tutela della propria affidabilità, di affidarlo a Orion Analytics, una tecnologia diagnostica messa a punto nel 1990 da James Martin in un laboratorio del Massachussets. È emerso così che il Ritratto di uomo di Hals conteneva in realtà tracce di materiali disponibili solo a partire dal XX secolo. L’opera è stata così declassata a “contraffazione moderna”, e l’acquirente è stato rimborsato. Quanto al presunto Parmigianino, la sua attribuzione risaleva al 1999. Il dipinto era stato esposto a Parma, Vienna e al Metropolitan Museum of Art di New York dopo la vendita da parte di Sotheby’s.
A fine maggio 2016 Ruffini è stato indagato per il sospetto di falsificazione d’opera d’arte, truffa e riciclaggio. Insieme a lui il figlio e un altro cittadino italiano. È partita contestualmente una segnalazione alla Procura di Reggio Emilia, terra d’origine dell’indagato, a cui è seguita l’apertura di un fascicolo da parte del pubblico ministero Giacomo Forte. In una perquisizione vennero anche sequestrate una Testa di Cristo, attribuita ad Andrea Solario, e una Scena carnevalesca, riconducibile all’ambito di Brueghel.
Due legali italiani, Federico De Belvis e Gaetano Pecorella, impugnarono il provvedimento, ottenendo il dissequestro delle opere. L’avvocato francese di Ruffini, Philippe Scarzella, intanto rilasciava una dichiarazione, affermando che il proprio cliente non aveva ragione di pensare che quei dipinti fossero falsi. Aveva consultato a sua volta periti, esperti, art dealer e musei, avendo riscontri positivi, se non esntusiasti. “Non è responsabile del loro mutamento d’opinione”, rilevò, e non senza qualche ragione, se si pensa che nel 2014 una delle opere, il David e Golia considerato un Orazio Gentileschi, seconda versione di quello conservato alla Galleria Spada, e realizzato nella rarissima tecnica dell’olio su lapislazzuli, che consente di utilizzare il materiale per fingere le acque e il cielo, era stato esposto alla National Gallery.
Ruffini spiegò: “Ho sempre pensato che il David dipinto su di una pietra così rara fosse del XVIII o XIX secolo. Ma è stato esaminato da tre esperti: Francesco Solinas, Roberto Contini e Mina Gregori. E non ho mai creduto che la Venere potesse essere di Cranach, dal momento che è dipinta su di una tavola di quercia, mentre l’artista preferiva quelle di tiglio”. Nelle perquisizioni venne anche trovato un forno, che forse era servito per anticare artificiosamente le opere. Si cominciò a parlare insistentemente di una sorta di centrale di produzione di falsi destinati a essere immessi nel mercato internazionale, localizzata nella Bassa Emiliana, e riconducibile forse all’attività di un copista di grande abilità. Il più noto tra coloro che sapevano emulare gli antichi maestri in quell’area era indubbiamente Pasquale Frongia, detto Lino.
Il San Francesco di El Greco
Nei mesi successivi il caso sembrò destinato a uscire dalle cronache. Riemerse nel 2019, allorché Lino Frongia volle costituirsi, per essere interrogato a Bologna, e immediatamente dopo rilasciato. Ruffini nel frattempo era stato arrestato in Francia e anche lui scarcerato, mentre il figlio era indagati a piede libero. Le indagini disposte in quei medi avevano ricostruito una vicenda che cominciava nel lontano 1985, spingendosi sino al sequestro di un San Francesco ritenuto di El Greco, esposto in una mostra monografica a Ca’ dei Ferraresi, a Treviso, nel 2015. Il dipinto venne trasferito a Parigi, con la sorpresa degli organizzatori dell’esposizione, che si erano affidati a esperti internazionali, per certificare l’autenticità dell’opera. Una delle principali esperte del pittore cretese per il Museo del Prado di Madrid, Leticia Ruiz Gómez, aveva firmato uno studio in cui si esprimeva a favore dell’autografia del dipinto. All’epoca Vittorio Sgarbi era intervenuto sulle pagine del Corriere del Veneto, ricordando di aver assistito all’atto di vendita tra l’ex proprietario e Frongia.
Gli inquirenti in quel periodo stimarono che il valore di vendita dei dipinti considerati come autentici e poi dei falsi (a cui era venne aggregato dubitativamente nel 2020 un San Cosma del Bronzino) si aggirava a non meno di 225 milioni di dollari. Ruffini però non è stato poi incriminato.
Frongia a Rovereto
Frongia peraltro non era nuovo a essere chiamato in causa in merito a dipinti antichi e al sospetto di una loro contraffazione. Nel 2008, in occasione della mostra del Correggio alla Galleria Nazionale di Parma, Vittorio Sgarbi affermò di aver visto un esposto come autografo del maestro emiliano proprio nello studio di Frongia, salvo poi a stretto giro l’autenticità. Si disse che era stato Ruffini a presentare l’opera alla Fondazione Correggio. Il sottoscritto ricorda invece che l’opera apparve sul mercato a metà degli Anni novanta, ed Eugenio Riccomini, grande esperto di pittura emiliana, aveva espresso un parere favorevole sulla qualità dell’opera. Frongia negò di aver realizzato il dipinto, pur ammettendo di aver prodotto alcuni quadri nella maniera di alcuni grandi artisti del passato, tra cui un Cristo di impaginazione differente che riecheggiava lo stile del Correggio. Sgarbi allora parlò di Frongia come “Il più grande tra gli antichi maestri viventi”.
Nel 2021 il Mart di Rovereto ha dedicato a Frongia la mostra Visioni, un’antologica che abbracciava tutta la produzione dell’artista di Montecchio, dai ritratti alle copie di Raffaello. Pochi mesi dopo, sempre al Mart, nell’ambito di un’esibizione dedicata ad Alceo Dossena, scultore cremonese che nei primi decenni del XX secolo produceva falsi dei grandi del Rinascimento (venne scoperto nel 1928, con grande clamore pubblico), Sgarbi volle esporre anche alcuni dipinti di Frongia: copie dell’antico in cui il pittore dava un saggio della propria capacità camaleontica d’imitare il modo degli antichi maestri.
I dubbi del servizio di Report
A fronte delle conclusioni dei magistrati di Macerata, che sono altra cosa, e che non costituiscono materia di cui si possa discutere con l’informalità di un blog, un dubbio resta, in relazione al servizio di “Report”. Quelle ammissioni colte con la telecamera dal basso sono ormai lo stilema di chi vuol far intendere di aver ricevuto una confessione di nascosto, facendo credere di avere la macchina spenta. Ma è davvero plausibile che per realizzare una candela su di uno sfondo nero si chiami quello che è considerato il miglior falsario al mondo? E che nel contempo si comperino i colori con cui fare la modifica vicino al ministero, come se Frongia non avesse disposto del necessario? La vicenda sembra quasi un romanzo di Mario Soldati. Troppo esposto Frongia? Troppo abile per un compito del genere? Di certo c’è che i quadri si falsificano copiandoli, imitando uno stile, in qualche caso persino camuffando un autore per un altro, attraverso un restauro che modifica intenzionalmente alcune caratteristiche, come lo sfumato leonardesco può apparire su di una tavola rovinatissima attribuibile a Bernardino Luini. Diversa è la circostanza di un dipinto che venga modificato per essere reso irriconoscibile, non a falsificare l’autore, ma a nasconderne la provenienza. Per poi esporlo, e qui si tocca il vertice del bizantinismo, non nella versione alterata, ma in una riproduzione ad altissima definizione, realizzata con scanner di ultima generazione.
Eccedendo nel cyber-romanzesco, potremmo allora desumerne che in alcune occasioni alle mostre compaiono questi oggetti ibridati, che sembrano dipinti, e forse sono invece rielaborazioni hi-tech, capaci di ingannare per texture anche gli occhi più attenti. E forse per un Hals, per El Greco, per Parmigianino, si potrebbe persino configurare l’idea di mostrare una copia tenendo in deposito l’opera originaria, autentica però contraffatta. Ma per Rutilio Manetti, che, a fronte di tutta l’attenzione mediatica, resta un minore, corsivo replicatore in provincia dei tardi stilemi caravaggisti? Davvero si sarebbe convocato il Moriarty dell’arte antica?